Lettera aperta ai fantasmi ancora vivi. Ovvero: come John Frusciante mi ha cambiato la vita.


Di Giorgio Orlando

(Questo che vado riempiendo è uno di quei fogli che funzionano bene anche se lasciati bianchi.)

Detto questo, il titolo è piuttosto pomposo, me ne rendo conto; ma la storia che vado a raccontare non è da meno, e quindi ben venga un po’ di sano campanilismo individualistico, e la consapevolezza che siamo da dove veniamo, e saremo quel che ricordiamo. (e se era pomposo il titolo, con quest’ultima affermazione ho dato di me un’immagine tanto seria e razionale che sento di dover disconfermare subito con una cazzata come, ad esempio, quella appena scritta).
Perché il significato che assumono alcuni dischi supera di gran lunga il loro valore intrinseco e di giustezza anche le migliori aspettative dell’artista. No, non parlo di sopravvalutazione, bensì di quel trasporto un po’ romantico un po’ cazzone che ti porta a dire: “questo disco è il migliore di tutti”, e assurdità simili.
Tuttavia in quel preciso momento storico, in quel tratto di arcobaleno in lacrime che è l’adolescenza tutto diventa possibile e verosimile;

e allora ben venga il barlume di speranza di risvegliarsi quattordicenni e dire che si, questo disco è stato “il migliore di tutti”. Parlare dei brani uno per uno sarebbe un gran perdita di tempo, se paragonato al tempo che si impiega ascoltando e cercando di cogliere il lampo, il ciclone: la quiete al centro dove tutto appare fermo, ed il ciclope col suo occhio buono ma che non vede nessuno. Ma qui devo fermarmi: il tono è troppo serio! Qui si parla di ragazzi, di giovani che si scambiavano le cassette, che usavano i cd e avevano assistito inermi alla fine del vinile e solo col tempo ne avrebbero visto la rinascita. In quella frazione di tempo si concentrano quelle che personalmente ritengo essere le esperienze che hanno segnato, nel bene e nel male, un’esistenza.
Ci sono dentro gli amori corrisposti, quelli meno, quelli affatto. Le donne da sposare subito, quelle da evitare del tutto, il piacere di una notte ed il tempo sprecato -ma non necessariamente- appresso a chi non ci teneva abbastanza in considerazione. Ma non solo, c’era anche l’amicizia, quella sana e disinteressata perché, parliamoci chiaro, eravamo tutti sulla stessa barca. E allora ci si scambiava di tutto, dalle storie inventate alle esperienze gonfiate, fino a quella parola vera che ti faceva brillare gli occhi, per quanto era rara.
Collegare tutto questo ad un disco, o meglio ad un artista, non è affatto facile; ma adoro le sfide e quindi ci proverò. John Frusciante, dunque. La prima volta che ho sentito un suo disco solista ero di ritorno da un concerto: non ricordo di chi fosse perché la cassetta nello stereo della macchina ha impegnato tutta la memoria disponibile; Niandra lades and usually just a t-shirt ha significato per me quello che gli scritti di Ginsberg o Kerouac hanno significato per la generazione che li ha vissuti. La consapevolezza di poter rivivere quello che i nostri padri avevano vissuto tramite Syd Barrett e la “schiera ristretta dei geni folli” o degli adorabili buffoni era eccitante e sconcertante al contempo; ma a quei tempi lo sconcerto veniva surclassato dal cinismo e da una buona dose di arroganza tanto ben aderente ai nostri contorni da apparire reale. Ed in effetti non era scena; O meglio lo era, ma non importava, perché la Scena era la nostra. A quei tempi già suonavo la chitarra e questo contribuì ad accrescere il mio interesse verso quel mondo che conoscevo solo parzialmente; ok, c’erano i Beatles, gli Stones, i Led Zeppelin ed i Pink Floyd; C’era anche Zappa, ed una marea di gruppi e gruppetti dividersi in parti uguali tra un’ascesa temporanea ed un declino rovinoso e definitivo; c’era il jazz in tutte le salse provenire dal salotto e poi tutta la musica italiana che comprendevi come un bambino di oggi comprenderebbe i richiami contenuti in questo testo.
Conoscevo bene i Red Hot di Slovak: Out in L.A. e tutti i primi dischi erano un costante sottofondo funk-rock alle giornate trascorse all’ombra di un sole troppo forte per chi ha l’animo oscurantista e misterioso, o per chi se lo voleva vedere addosso; ma dannazione, quei riff davvero ti portavano a “combattere come un impavido”, e la cover di “Castles made of sand” è una delle poche cover che so fare ancora oggi, giusto per capire quanto mi abbiano segnato! Ma quella era una Band, e benché Kiedis cantasse veramente male, (Certo, canta Under the bridge, give it away, e poi vediamo…), il gruppo funzionava come un motore perfettamente rodato: Flea non ha bisogno di presentazioni come Chad Smith non ha bisogno dello zuccherino per pompare come un cavallo dannato sulla batteria come James Brown faceva alla voce. Dalle demo fino a Blood Sugar Sex Magic, passando da quel capolavoro zeppeliniano di Mothers Milk fino a quell’abominio perfettamente agghindato che è stato Californication. Bravi tutti, dunque (bravo Elio, bravo Fogli), ma mancava qualcosa…mancava quel qualcosa che ho avvertito solo ascoltando i dischi di Fusciante da solista: il Riscatto. Ecco, nei Red Hot tutto funzionava troppo bene, la macchina andava a meraviglia senza intoppi, quasi non fossero esseri umani: Frusciante ci ha restituito quel dato di realtà, smascherato quella infallibilità adolescenziale che ci prendeva in giro e ci faceva perdere – meravigliosamente – in un infinito giro di basso. (Soul to squeeze).
To record only water for ten days. Ecco, dovessi scegliere un disco da portare su un’isola deserta porterei un gruppo elettrogeno, un hi-fi, e questo disco. Nel mio periodo più florido ho registrato diversi brani di questo disco cercando di essere il più fedele possibile all’originale; dalle drum machines ai suoni di chitarra, dai suoni di tastiera appena accennati ma fondamentali, al cantato che era una via di mezzo tra il Lou Reed che ci piacerebbe dimenticare ed il Barry White che vogliamo ricordare (Someone’s era venuta una meraviglia!). C’era proprio tutto e di tutto, davvero. Sicuramente c’era tutto quello che serviva ad uno come me (non che ce ne siano altri) per rendere al meglio una persona attraverso una musica, e suonarla e cantarla con tutti i mie amici, e partire da lì per avviare tutto quel che avrei registrato in seguito in quel periodo penso sia stato un onore, anche per Frusciante stesso. Ma si sa, le cose belle non durano per sempre, la prova ne è il fatto che mentre scrivo finisce anche Curtains, altro capolavoro che raccomando a chiunque sia arrivato alla fine di questo pallosissimo racconto ed abbia colto anche solo in parte il senso di un foglio che, a conti fatti, non andava lasciato bianco.